mercoledì 7 novembre 2012

Per non svendere il fair trade

Su Volontari per lo Sviluppo di luglio-agosto 2012,  Stefania Garini con un articolo che condividiamo "Non svendiamo il fair trade" fa il punto sul dibattito riguardante l'evoluzione del movimento fair trade.  Lo pubblichiamo integralmente poiché ci sembra troppo importante ed utile.

Un giro d'affari mondiale da 6 miliardi di $, con una crescita annua del 27%. in barba alla crisi, il commercio equo 'tiene' e risulta anzi in escalation. Non fa eccezione l'Italia, dove il valore totale delle vendite registrato nel 2011 è stato di 57,5 milioni di euro con un aumento dei 16,5% in un anno. «Un segno incoraggiante: i consumatori premiano le pratiche responsabili verso ambiente, lavoratori e comunità locali» dice Paolo Pastore, direttore di Ft Italia, il consorzio che certifica i prodotti equo-solidali con il marchio Fairtrade.
Ma se i conti 'tornano', a livello internazionale qualche nube s'addensa all'orizzonte. Tutto inizia con la campagna Fair trade for all, lanciata a fine 2011 da Ft Usa secondo cui, poiché "il commercio equo raggiunge solo una piccola parte degli oltre 2 miliardi di persone sotto la soglia di povertà, esso va esteso il più possibile. Come? Aprendo alle multinazionali. Una presa di posizione che ha condotto alla scissione di Ft Usa da Ft International, «riportando alla ribalta una questione annosa: aprire o no al mercato mainstream, cioè alle grandi corporation con i loro volumi stellari e le loro reputazioni da ripensare» dice Alberto Zoratti di Agices (Assemblea italiana dei commercio equo e solidale). In Italia tutte le realtà dei commercio equo si sono subito schierate dalla parte dell’associazione internazionale, al cui interno non è mancato un forte dibattito tra gli stessi padri fondatori: Nico Roozen, favorevole ai fair trade di massa», e Frans van der Hoff, contrario ad «annacquare il concetto di equo». Ma qual è la vera posta in gioco? «Il problema non è tanto lavorare con le multinazionali, il che già avviene. In Inghilterra e Irlanda ad es. si lavora già con grandi aziende come Nestlè, Mars e Cadbury» spiega Paolo Pastore.« Ma in questi casi sono loro ad aver scelto di usare i prodotti certificati Ft (cacao e zucchero di canna), non noi a certificare i loro. Invece Ft Usa, per agevolare l'ingresso delle multinazionali nel mercato, ha introdotto criteri di selezione più blandi, ad es. abbassando al 10% la soglia degli ingredienti necessari per etichettare i prodotti come equi. E' questo che non va». Ora infatti alcuni grandi marchi come Starbucks (il più grande negozio di caffè al mondo) possono scrivere sull'etichetta 'fair trade' non per aver cambiato il loro modo di lavorare, ma perché Ft Usa ha mutato le regole. «Ma così si svende il commercio equo. Operazione inutile visto che il nostro modello, come indicano i dati delle vendite, si sta mostrando vincente».

Modelli alternativi

Alla base della rottura tra Ft International e Ft Usa (che rappresenta circa 114 dei mercato fair trade) ci sarebbero anche alcune differenze 'storiche' «In paesi come Italia o Canada, le organizzazioni del commercio equo sono nate da una base sociale ampia - realtà di cooperazione internazionale, reti locali, finanza etica, green economy ecc. mentre negli Usa derivano da poche grandi fondazioni» spiega Pastore. Per questo Ft International privilegia le cooperative e le associazioni di piccoli produttori, e «le grandi aziende sono inserite nel circuito solo se producono beni che le piccole non possono fornire, come per il tè dei sudest asiatico». D'altra parte Paul Rice, presidente di Ft Usa, sostiene che «i coltivatori delle grandi piantagioni sono i veri ultimi dei mondo e aprire il commercio equo anche alle piantagioni può costringere i padroni ad applicare le regole». «Nessuno discute che maggiori risorse siano un beneficio per le comunità di produttori, ma la certificazione di prodotto permette a un licenziatario di avere una linea equo-solidale in mezzo a una miriade di prodotti non certificati» replica Zoratti di Agices. E aggiunge: «Lo sfruttamento sul lavoro e i bassi salari sono la conseguenza, non la causa, del market power delle grandi imprese, che possono imporre costi e prezzi ai produttori e ai consumatori. Pensare di ampliare i benefici (non solo i fatturati) del commercio equo con il mero ampliamento alle corporation senza metterne in discussione il potere di mercato è pura utopia». Per Alessandro Franceschini, presidente Agices, si deve «distinguere tra una certificazione di prodotto e una di organizzazione: ciò che conta è la costruzione di un sistema economico più giusto e sostenibile in tutti i suoi aspetti, non l'offerta di un singolo bene socially correct». Anche da parte dei diretti interessati (i piccoli produttori dei Sud) non sono mancate le reazioni nei riguardi della scelta statunitense: sul Guatemala Times, la rete di contadini del Mexican coordinator of smail fair trade producers ha accusato Ft Usa di attuare una 'neoliberalizzazione' dei movimento, nato invece per costruire un modello produttivo alternativo: 'democratico ed equo'.

Dare gambe al commercio equo

Ma come coniugare gli standard di qualità (e i valori ideali) con l'esigenza di espandere il mercato? «Certo è importante collaborare con la grande distribuzione, in Germania ad es. oltre il 50% dello smercio di prodotti fair trade avviene nei discount. Però anche lì, sono i discount ad aver accettato le regole Ft, non il contrario» spiega Paolo Pastore. «In Italia i supermercati iniziano a promuovere i prodotti dei commercio equo, ma per ora si tratta soprattutto della distribuzione cooperativa (Coop e Conad) e delle aziende biologiche». Un altro aspetto da potenziare in Italia, secondo Pastore, sono i rapporti tra i vari soggetti dei commercio equo, «perché da noi c'è ancora poca collaborazione tra Ft e Botteghe dei mondo». Da un lato, nelle Botteghe ci sarebbero ancora pochi prodotti certificati Ft (le Botteghe, riunite nell'Agices, hanno un proprio Sistema di validazione dei prodotti, nda); dall'altro, Ft certifica prodotti che sono distribuiti prevalentemente in canali diversi dalle Botteghe: Pompadour per il tè, Alce Nero per il cioccolato ecc. «Per usare una metafora» continua Pastore, «le Botteghe che importano e vendono, e Ft che verifica il rispetto della filiera sono un po' le due gambe dei commercio equo: una gamba sola zoppica, due gambe insieme possono correre. Lo dimostrano i casi di Svizzera, Inghilterra e Austria - dove quasi tutti i prodotti delle Botteghe sono certificati Ft - in cui il mercato equosolidale ha avuto un grosso boom». Intanto, Ft Italia guarda avanti, verso una nuova frontiera: il fair trade 'domestico', dall'Italia all'Italia. «Sfruttamento, caporalato e lavoratori immigrati ridotti in semi-schiavitù nei campi ci chiamano a un nuovo ruolo. Dobbiamo assicurare i consumatori su quali prodotti siano sostenibili a 360*, dal punto di vista economico, etico, sociale e ambientale» conclude Pastore. «Questa è la nuova sfida dei domani».
(Stefania Garini) 

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